L’inflessibilità del lavoro

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Al convengo dei giovani imprenditori svoltosi a Parma nei giorni scorsi emerge un appello chiaro orientato a chiedere norme che consentano una maggiore flessibilità nel lavoro.

Il tema della flessibilità è ovviamente per tutti una questione seria, complessa e non trattabile con linearità e semplicità, finiremmo per banalizzare uno degli aspetti centrali di questa nuova era.

Ciò che faccio fatica a condividere, sono alcuni interventi, tra i quali emerge una costante tra la possibilità di essere competitivi e il costo del lavoro; viene infatti sostenuto il principio che le imprese italiane sono meno competitive di altre a causa di un rapporto di lavoro ingessato, e che occorrerebbe pensare addirittura a forme contrattuali “ad personam”. Tale principio oltre ad essere discutibile, in quanto rappresenta una posizione discussa da almeno 15 anni sugli stessi tavoli di lavoro, quindi assolutamente poco innovativa, si va a scontrare con un’altra costate (sempre emersa durante il convengo), ovvero il principio per cui il lavoratore del terzo millennio deve essere in grado di accumulare esperienze e competenze da poter mettere a disposizione di qualunque impresa diventando lui stesso fonte di stabilità di rapporto di lavoro in quanto capace e indispensabile per l’azienda.

Presi singolarmente questi due principi potrebbero avere ovviamente un significato ed un’interpretazione di efficacia all’interno del contesto competitivo e sociale, tuttavia non condivido il punto di vista degli imprenditori nella misura in cui non fanno lo sforzo di ripensare al ruolo dell’impresa e alla responsabilità anche sociale che quest’ultima deve avere.

Non basta trovare ipersoluzioni, occorre, dato un vincolo (spesso con ripercussioni sociali), trovare tutte le forme possibili per ridefinire un nuovo modo di concepire il lavoro all’interno delle imprese italiane, con o senza contratto ad personam.

Nel convegno è stato detto che fino a due anni fa le imprese avevano ordine in portafoglio fino a sei mesi, oggi in alcuni casi si arriva a sei giorni (media 6 settimane), e di conseguenza anche il mercato del lavoro dovrebbe adeguarsi a queste condizioni di mercato, dall’altra parte si è discusso sui metodi per fare in modo di rendere insostituibile un dipendente prezioso all’interno dell’organizzazione, mi pare che questi due assunti debbano essere analizzati integralmente e non separando la causa dall’effetto.

Se è sempre più vero che le previsioni di business sono difficili, è altrettanto vero che la frammentazione e l’incertezza reddituale delle persone che lavorano all’interno delle imprese rischia di generare una capacità “produttiva” di pessima qualità e sicuramente non in grado di incrementare la competitività della stessa impresa.

Invece di promuove ipersoluzioni, invito a riflettere sulle scelte organizzative mirate a creare una nuova cultura aziendale e del lavoro, iniziando a pensare che la competitività di un’impresa non passa solamente dalla visione dell’imprenditore, ma dalla capacità di coinvolgere ogni membro dell’organizzazione verso un obiettivo di più ambio respiro, sempre più focalizzato del medio e lungo periodo e contemporaneamente nel brevissimo periodo…. è un modo difficile!

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