Non profit
Il coworking come strumento di sviluppo del non profit
Come anticipato nel precedente post, ecco la seconda riflessione relativa all’interpretazione di coworking n occasione della mia partecipazione a “Espresso Coworking”, questa volta dedicata al mondo non profit.
Per qualcuno potrebbe essere una risposta scontata ma all’interno di un’organizzazione non profit, si sviluppano azioni di coworking? La risposta dovrebbe essere affermativa, tuttavia accade che all’interno di quello che potrebbe essere definito un perfetto incubatore di idee, di stimoli, di motivazioni, non si riesca a sviluppare un’azione integrata e continuativa di coworking. Leggi il seguito di questo post »
I bisogni del non profit
Di cosa hanno bisogno le organizzazioni non profit per affrontare i nuovi scenari sociali ed economici?
Il concetto di sussidiarietà del non profit, non rappresenta più solo un pensiero astratto ma diventa una vera e propria tendenza quasi scontata attraverso la quale il non profit viene investito di un ruolo che praticamente ed operativamente ha, senza tuttavia averne sempre le adeguate competenze e soprattutto senza un riconoscimento anche formale in grado di certificare l’impatto sociale delle azioni che mette in campo.
In altri termini se si vuole riconosce al non profit un ruolo di sussidiarietà rispetto allo sviluppo del welfare occorre procedere in due distinte direzioni, da un lato le istituzioni (in senso ampio) dovrebbero consentire al non profit di assumere una maggiore autonomia all’interno dei processi di condivisione e decisione che hanno impatto sociale; dall’altro il non profit dovrebbe riuscire a prendere una maggiore consapevolezza rispetto alla necessità di crescere e strutturarsi per rispondere a nuovi bisogni emergenti. Leggi il seguito di questo post »
Lo sciopero del prete!
Anche i preti scioperano? Si è successo (o potrebbe succedere) a Zelo Surrigone, un paesino del milanese, dove Don Carlo Gaviraghi ha annunciato con determinazione uno sciopero se le offerte durante la messa non saranno più cospicue.
Non è un pesce di aprile, è la realtà. L’azione di Don Carlo rappresenta perfettamente il mondo in cui viviamo, dove anche un prete non sa più (o forse non lo ha mai saputo) quali leve usare per incoraggiare un fedele a donare.
Caro prete è finita l’epoca del ricatto. Oggi occorre utilizzare leve differenti per consentire al fedeli di partecipare al sostentamento di un’azione sociale chiara e non generica come la “parrocchia”.
Attenzione, il prete non chiede più soldi per continuare o avviare un progetto con ampio respiro sociale, finalizzato ad aiutare le persone in difficoltà, ma per ristrutturare e abbellire la torre campanaria!!!
Anche il prete si lamenta della crisi, aggiungendo di aver dato il via all’appalto dei lavori quando le cose andavano bene e le entrate erano migliori, insomma prima della crisi, poi le cose sono peggiorate ed ora non è più in grado di far fronte ai pagamenti. (per far la predica al prete…ha fatto il passo più lungo della gamba)
Il motivo per cui vi presento questo caso, è tuttavia quello di ragionare sulle azioni che un’organizzazione non profit può mettere in campo per incrementare la propria capacità di attrarre i propri sostenitori. La Chiesa, ma non solo, ha evidentemente abusato negli anni di una posizione dominante nei confronti dei propri fedeli, pensando che il richiamo della Fede fosse per sempre sufficiente per ottenere il coinvolgimento ( e quindi anche il sostegno economico). Se è vero che il cliente delle realtà for proft è sempre più annoiato, preparato, con aspettative crescenti e spesso con attenzione labile nei confronti dei propri fornitori, lo stesso lo potremmo dire dei donatori o dei sostenitori delle organizzazioni non profit, e il caso di Zeno Surrigone ne è un esempio.
Anche in questo caso le organizzazioni non profit, potrebbero contaminarsi con le realtà for profit, apprendendo i meccanismi che portano ad una maggiore fidelizzazione dei propri clienti/utenti/sostenitori, iniziando a considerare le conseguenze delle proprie azioni o delle proprie non azioni e questo vale anche per la Chiesa.
Se per un’azienda mettere al centro il cliente deve oggi più che mai far parte del proprio DNA, lo stesso dovrebbe valere per un’organizzazione non profit, superando l’ortodossia che la propria mission sia esclusivamente quella di soddisfare chi utilizza i servizi (in senso lato) dell’organizzazione stessa. In altri termini la logica multi stakeholders deve arrivare anche ai gestori del non profit, innescando azioni multilaterali che possano garantire una diffusa soddisfazione tra tutti i soggetti che direttamente o indirettamente si interfacciano con quell’organizzazione.
La dura vita del donatore!!!
Una volta si diceva che il mestiere più difficile per chi occupava di volontariato o in generale di non profit, fosse proprio quella di dover recuperare le risorse, soprattutto economiche per riuscire a portare avanti iniziative spesso con una forte ricaduta sul tessuto sociale.
Lo sappiamo, non è facile, soprattutto in momenti di crisi, raccogliere fondi, beni o servizi da destinare a persone che per infiniti motivi non possono permettersi di avere. Ecco allora che periodicamente si innescano gare di solidarietà incredibili in cui anche le persone più distanti dal terzo settore, mettono mano al portafoglio e contribuiscono al raggiungimento di risultati sociali sorprendenti, ne sono un esempio la raccolta alimentare del Banco Alimentare organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare con la collaborazione dell’Associazione Nazionale Albini, o ancora lo stesso Telethon (forse la più famosa e mediatica azione di raccolta fondi).
Tutto questo in un paese normale è segno di civiltà, di buon senso ma anche di consapevolezza rispetto alle esigenze primarie che spesso non riescono ad essere soddisfatte.
Fino a ieri, il compito difficile era di chi cercava di organizzare la raccolta fondi e non di chi contribuiva alla stessa.
Da ieri dicevamo, questo meccanismo si è interrotto (speriamo che sia un fenomeno limitato e frutto solo di stupidità) pare infatti che le maggiori difficoltà le abbia il donatore, che non è più libero di erogare liberamente un contributo in denaro o in beni senza essere insultato e considerato un infame sprovveduto.
E’ il caso del benefattore di ADRO piccolo centro in provincia di Brescia, reso famoso per l’assurda posizione assunta da un Sindaco che ha escluso alcuni bambini dalla mensa scolastica perché i genitori non pagavano la retta……..
Per porre fine alla questione è infatti intervenuto un donatore, un imprenditore, il signor Silvano Lancini che invece di ricevere il consenso della collettività per aver compensato alle mancate rette delle famiglie insolventi è stato attaccato, addirittura alcune mamme avrebbero detto: “ingiusto per chi paga la retta” (dichiarazione tratta da www.ilsole24ore.it), appare evidente che tale situazione non può che essere paradossale e far male non solo alle persone coinvolte ma all’interno mondo della solidarietà.
Questo post tuttavia nasce con un’altra finalità, non solo quella di evidenziare un fatto quantomeno fastidioso, ma anche quella di ragionare sugli approcci e sulle dinamiche che influenzano la raccolta fondi da un lato ma anche l’utilizzo dei fondi dall’altro.
Primo aspetto riguarda la raccolta fondi, non tutte le cause sociali trovano lo stesso gradimento dai donatori, e viceversa non tutti i soggetti utilizzatori dei fondi accettano di ricevere fondi da chiunque.
Tale limitazione ovviamente comporta possibili situazioni di crisi, da un lato il non profit che sostiene cause sociali poco “di moda” deve impegnarsi maggiormente ad arrivare alla “pancia” dei donatori, sforzandosi in una comunicazione ed in un coinvolgimento più intenso, dall’altro, sempre lo stesso non profit, deve essere in grado di apprezzare gli sforzi di chiunque cerchi di soddisfare una lacuna sociale.
Il ruolo del non profit dovrebbe essere anche quello di intercettare possibili disagi emergenti e latenti, nel caso specifico di ADRO, il primo interlocutore ad intervenire rispetto alla decisione del Sindaco doveva essere il non profit (magari lo ha anche fatto ma di certo non è emerso dalla cronaca), attraverso la propria rete di relazione, di conoscenze, ma anche di azioni concrete sul territorio. Immaginate un non profit che di fronte ad una decisione istituzionale, decida di muovere la collettività verso un ragionamento non scontato, avviando quindi un canale di finanziamento finalizzato ad un bisogno emergente, sarebbe stato sicuramente di tutt’altro impatto, e probabilmente certe affermazioni non sarebbero mai emerse.
Il ruolo quindi del terzo settore si trova continuamente, ed il caso di ADRO ne è un esempio, a confrontarsi con situazioni che sono al confine di una realtà fino ad ora immaginata, e con molta timidezza si trovano a gestire. Fare lo sforzo di uscire dai propri schemi consolidati ed interagire con il mondo delle istituzioni in maniera più decisa, senza temere le conseguenze, assegnerebbe al non profit un ruolo di protagonista nella definizione di un welfare che sempre più spesso viene confuso o non compreso.
Donazioni & fiducia alimentano la CSR per le organizzazioni non profit
Ritorno su un argomento a lungo trattato negli ultimi mesi, mi riferisco al tragico evento sismico che ha colpito la gente d’Abruzzo.
Il focus di questo post si concentra sulle donazioni che a fronte del terremoto sono giunte presso le numerose associazioni ed enti impegnati nella ricostruzione post terremoto.
Inutile dire che, ancora una volta, la generosità ha permesso di raccogliere cifre realmente interessanti da destinarsi alla ricostruzione delle zone terremotate. Le casse delle associazioni si sono in alcuni casi letteralmente riempite, con la conseguenza responsabilità di dover rendere conto, ancora con più attenzione, del reale utilizzo delle somme versate.
Da un punto di vista manageriale la vera criticità per le organizzazioni non profit potrebbe essere rappresentato dalla sottovalutazione dell’importanza di essere in grado di gestire correttamente il flusso delle donazioni ed in generale le prossime raccolte fondi.
Le aree di attenzione sono due:
- Essere in grado di sfruttare nel momento dell’emergenza i potenziali contatti che solitamente si utilizzano per la raccolta fondi istituzionale dell’organizzazione non profit
- Essere in grado di monitorare e rendicontare puntualmente e costantemente l’utilizzo di tutti i contributi raccolti.
Per quanto riguarda il primo punto è da notare che sono ancora molte le associazioni o organizzazioni che non dispongono di un “portafoglio” di donatori a cui poter chiedere uno sforzo in caso di emergenze, e che quindi le donazioni raccolte in caso di emergenza sono solo frutto della fedeltà o riconoscibilità del brand e non della capacità di raccolta fondi.
Per quanto riguarda il secondo punto, spesso ci si dimentica di dar conto del proprio operato, sopravvalutando la propria capacità comunicativa, o in altri casi abusando della fiducia del propri donatori.
Le emergenze sono un’occasione per imparare rapidamente a gestire i flussi di donazioni, per essere colta come opportunità bisogna tuttavia avere l’umiltà e la voglia di imparare prima ancora di gestire, di raccogliere fondi considerando questa attività sempre più centrale per lo sviluppo del non profit.
In altri termini, la capacità di raccolta fondi (intendendo capacità di raccolta, di gestione e di impegno dei fondi) non è solo un’area di miglioramento manageriale che non può essere improvvisata ma diventa uno dei momenti centrali delle azioni di CSR delle organizzazioni non profit
Inizia la contaminazione?
Un recente articolo di Valeria Fraschetti apparso su “La stampa” della scorsa settimana recitava “I manager a scuola dal “pony” indiano”. I dabbawala è questo il nome del pony express indiano, hanno una percentuale di successo nelle consegne pari al 99,999%, sono diventati un vero caso studio per molti manager occidentali tanto da aggiudicarsi secondo Forbes la certificazione Sei Sigma .
I dabbawala riescono ogni giorno a consegnare ad oltre 200.000 persone il pasto caldo ritirato direttamente a casa dei clienti e consegnato in ufficio, con una percentuale di successo quasi totale.
Pare che società come Tata, Unilever e Coca-Cola abbiamo inviato a Mumbai, una megalopoli di oltre 17 milioni di abitanti i propri manager ad osservare i dabbawala da vicino per carpirne i loro segreti.
Non è affatto casuale quanto sta accadendo, anche le organizzazioni complesse come alcune società multinazionali sentono sempre più spesso l’esigenza di ascoltare ed aprirsi verso altri orizzonti imparando o migliorando le proprie performance anche attraverso la contaminazione con realtà apparentemente lontane.
La riflessione che vorrei condividere con voi tuttavia è un’altra, se il caso degli dabbawa è globale e assolutamente di successo riconosciuto, è anche vero che in altre realtà ad esempio non profit, ci sono esempi di efficienza che potrebbero tranquillamente essere per lo meno osservate dai manager di società for profit.
Per riuscire nell’intento della contaminazione tuttavia bisogna avere non solo il coraggio ma anche la curiosità di osservare ciò che viene in altre organizzazioni o in altre realtà.
Sono convinto che se il profit ha molto da insegnare al non profit, vale anche il contrario, bisgona avere le capacità da entrambe le direzione di saper guardare ed ascoltare ciò che viene proposto od offerto superando ogni paradigma.
Concludo con una curiosità senza nessun commento i dabbawa guadagnano poco più di 60 euro al mese.
La competitività del Terzo Settore
La competitività nel terzo settore, può essere identificata con la capacità di incrementare il valore sociale prodotto e percepito dagli utilizzatori dei servizi erogati; tale condizione passa anche attraverso la formazione. Quando si parla di formazione rivolta ai volontari di quale formazione stiamo parlando? Spesso si intende formazione esclusivamente tecnica, legata all’incremento delle capacità operative del volontario nel proprio ambito di azione. Questo tipo di formazione ha il vantaggio di essere immediatamente fruibile da tutti anche alla luce della possibile eterogenità dell’aula; in altre parole quando si spiega ad esempio ad un volontario come caricare un ferito su un asse spinale, si rende necessario fare vedere e sperimentare delle sequenze di manovra, sarà l’esperienza e la frequenza operativa di tali manovre a trasformare il volontario in esperto utilizzatore dell’asse spinale.
La formazione tecnica è dunque essenziale per consentire a qualunque organizzazione di poter sviluppare la propria attività istituzionale, è inoltre la più semplice da progettare ed anche da erogare.
Esistono parecchie realtà di volontariato che intendono e riconoscono solo questo tipo di formazione, reputano fondamentale la formazione ma solo per migliorare le attività che vengono erogata all’esterno dell’associazione stessa.
Le associaizoni che considerano la formazione tecnica come l’unica strada strada utile e crescere rischiano non solo di non riuscire a governare un processo di sviluppo, ma addirittura di perdere nel medio e lungo periodo un crescente numero di volontari.
Pensare che sia sufficiente saper fare bene l’attività per cui si è scelto di diventare volontario per una determinata associazione, risulta il vero limite al superamento del nanismo di molte delle realtà presenti in Italia. Il nanismo non è di per sè negativo, è semplicemente riduttivo rispetto al potenziale che i volontari potrebbero erogare se oltre a concentrarsi sulle attivtà esterne dedicassero maggiore attenzione alla gestione “manageriale” della propria organizzazione.
Accade spesso che venga scelto come coordinatore di un gruppo di volontari, non colui che ha le migliori capacità organizzative, ma colui che sul campo ha dimostrato di conoscere le attività che vengono svolte dai volontari, o ancora peggio, colui che ha molto tempo da dedicare alle attività dell’associazione.
Sia il tempo che le capacità tecniche non sono la risposta alla possibilità di generare nuovo valore sociale, si rende al contrario necessario affrontare seriamente percorsi di crescita manageriale progettata per le esigenze delle differenti tipologie di organizzazioni non profit.
Kotler, il marketing e la responsabilità sociale
Era il 1997 quando sostenni l’esame di marketing in università, ovviamente utilizzando anche la “bibbia”, il Kotler. Dopo due anni uscì la versione per le organizzazioni non profit ovvero “Marketing management per organizzazioni non profit”, non potevo perderlo.
Le aspettattive furono immediatamente sosddisfatte, anche perché in quel periodo stavo lavorando come volontario CRI allo sviluppo di una delle prime scuole di formazione per il volontariato di protezione civile presenti in Italia e quindi le iniziative di fond raisind e marketing risultavano necessarie e potersi confrontare con Kotler non era certo una banalità.
Qualche mese fa è uscito un altro interessante libro sempre dello stesso Kotler questa volta sul tema della responsabilità sociale, la scorsa settimana ho deciso di acquistarlo…. E per la prima volta sono rimasto deluso.
Il libro in sè porta una serie di testimonianze interessanti e di alto livello, l’unico vero limite è rappresentanto da una profonda decontestualizzazione rispetto allo scenario europeo ed italiano.
L’integrazione tra il profit e il non profit vista da Kotler funzione nel moneto in cui l’impresa profit si confronta con strutture non profit organizzate e strutturate al pari di un impresa for profit; tale condizione in Italia, ma direi in Europa è piuttosto rara e comunque non rappresenta la maggioranza delle organizzazioni non proft con cui poter sviluppare azioni congiunte di CSR.
Sempre interessante assumere punti di vista differenti, tuttavia questa volta Kotler fornisce uno spaccato della realtà troppo distante rispetto alle esigenze dei principali stakeholders delle nostre imprese. Alcune iniziative potrebbero essere ovivamente riproposte tali e quali, altre tuttavia no, non sarebbero in grado di risultare ugualmente efficaci.
Il tessuto sociale europeo ed italiano è differente rispetto ad alcune realtà statunitensi, anche la conformazione delle organizzazioni non profit risente di questa differenza, non solo per le attività erogate, ma anche e soprattutto per le dimensioni e la loro struttura organizzativa.