responsabilità
Responsabilità, ruolo, inquadramento e licenziamento
Il titolo di questo post nasce dall’osservazione di una situazione reale che mi ha fatto pensare ai limiti di questi quattro termini soprattutto se presi in considerazione contemporaneamente.
Oltre ai limiti dei termini, la riflessione si sposta come di consuetudine sui limiti delle azioni manageriali, molte volte inconsistenti o inadeguate rispetto ai contesti.
Esiste un legame tra responsabilità, ruolo aziendale e spesso inquadramento contrattuale. Normalmente un inquadramento contrattuale dirigenziale, prevede ruoli di responsabilità all’interno dei quali le responsabilità sono evidenti e si devono ben distinguere da chi in azienda non ne ha o ne ha meno. Questa distinzione spesso coincide con una differenziazione retributiva anche molto evidente. Leggi il seguito di questo post »
Braccialetti vibranti OBI: perché sono un errore!
Quando l’orientamento al cliente viene interpretato forzatamente emergono soluzioni come quella utilizzata dal management OBI.
Si tratta di una superclassica ipersoluzione che come al solito ha più controindicazioni che benefici. Ogni volta che il management di un’azienda avvia un’azione che impatta sulle persone dovrebbe essere più attenta a considerare le retroazioni. Proviamo a considerare la situazione da un punto di vista differente. Leggi il seguito di questo post »
Serve ancora timbrare il cartellino?
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Francamente penso di no! Il problema del timbrare o meno il cartello non rientra solo in una logica di controllo/fiducia che condiziona la cultura aziendale, va ben oltre. Timbrare o strisciare il badge identifica principalmente il lavoro come l’occupazione del tempo di una risorsa, spesso, non sempre, poca importa cosa fai e come lo fai. Questo concetto di lavoro ha condizionato sia le organizzazioni che il pensiero del lavoratore, ed a volte si è verificato un condizionamento involontario reciproco. Leggi il seguito di questo post »
L’autogol di Dolce&Gabbana vanifica le azioni di CSR
In questo caso non esistono altri termini che autogol. Il comportamento assunto ieri da D&G, rispetto all’affermazione dell’Assessore al Commercio del Comune di Milano Franco D’Alfonso, rappresenta per molti versi un comportamento che può portare con se più criticità che benefici.
Reagire in quel modo insultando l’istituzione comunale semplicemente per il fatto di aver riportato un fatto e non un’opinione (D&G sono stati condannati e questo è un fatto) può essere di per sé discutibile, tuttavia assume una gravità ulteriore se si legge con attenzione quanto dichiarato nel codice etico della società che provo a riportare di seguito nei suoi passaggi più significativi: Leggi il seguito di questo post »
La decrescita manageriale felice
Un capo che non è più capo ma continua ad operare nella stesa struttura, un leader che non ha più responsabilità operative ma continua ad operare nella stessa struttura rappresentano due scenari possibili all’interno delle moderne organizzazioni aziendali?
Si in entrambi i casi. Il concetto di decrescita manageriale felice, si riassume infatti in quelle poche righe; il ruolo del manager in un’era di reale discontinuità presenta degli elementi differenti rispetto al passato. Se in passato la decrescita nel ruolo e nelle responsabilità poteva rappresentare ed essere considerata una pre cacciata dall’organizzazione, oggi può apparire in maniera differente. Leggi il seguito di questo post »
Budget o CSR?
“Si belle le iniziative di csr, ma non possiamo perdere tempo anche per queste cose, dobbiamo concentrarci per raggiungere il budget, solo dopo (forse) potremmo occuparci di queste iniziative sociali” è questa una tipica frase che sempre più spesso si sente dire all’interno delle organizzazioni, spesso multinazionali che devo accogliere e tradurre in azioni un “invito” spesso imposto dal quartier generale, ed in particolare dalla funzione CSR centrale. Le azioni di csr vengono quindi vissute come collaterali alle attività di business, che al contrario sono sempre più pressanti e inderogabili nei volumi e nelle quantità.
Quando assisto a situazioni simili e sento dai manager emergere un disagio e un’insofferenza rispetto a questi obblighi che talvolta non vengono neppure compresi e vengono vissuti come paralleli e distanti dall’attività core, mi rendo conto che la strada della diffusione delle prassi di CSR, appare ancora lontana dalla quotidianità dei processi di business. Leggi il seguito di questo post »
La capacità di accontentarsi: vizio o virtu?
Ci sono persone che non si accontentano mai. Ci sono capi che non si accontentano mai, ci sono organizzazioni che determinano contesti in cui non ci si può mai accontentare.
Tutto ciò è corretto? O meglio è giusto affermare che sia sbagliato accontentarsi? Il ragionamento che vorrei condividere non vuole riferirsi ad un contesto assoluto in cui l’accontentarsi o il non accontentarsi determino specifiche caratteristiche individuali della persona, mi vorrei rivolgere a situazioni in cui le aziende scelgono di sviluppare situazioni e contesti in cui sia sbagliato accontentarsi.
Il capo che gestisce il collaboratore ha realmente il dovere di continuare a generare il senso del non accontentarsi sempre e comunque indipendentemente dalle caratteristiche della persona piuttosto che della situazione generale in cui orbita l’azienda?
Considerando tutte le volte che mi sono trovato a confrontarmi su questi temi con manager di diversa seniority, mi viene da pensare che forse, allontanarsi da situazione in cui le persone si accontentano, sia spesso la strada più semplice probabilmente perché si teme di non saper gestire la situazione opposta.
Gestire persone che si accontentano è forse più complesso, ma è anche certo che organizzazioni che creano contesti in cui le persone arrivano a trovare un proprio equilibrio, a volte accontentandosi a volte non accontentandosi hanno saputo crescere manager in grado di non governare con uno standard le proprie persone, seguendo quindi il percorso più difficile ma allo stesso tempo più efficace.
Lavorare in un’organizzazione in cui si respira, anche solo indirettamente, una sensazione di perenne stato di disequilibrio è pericoloso, può infatti nel lungo periodo generare uno stato di completo distacco dalla realtà, generando indifferenza o insoddisfazione. Il saper accettare le situazioni, valutando gli aspetti positivi e contemporaneamente gli aspetti negativi diventa quindi un requisito centrale per riuscire a crescere persone in grado di apprezzare ciò che hanno avuto in funzione degli sforzi che hanno compiuto.
In un mondo che sviluppa tutto alla massima velocità è forse più probabile trovare contesti in cui regna constante la perenne insoddisfazione, per questa ragione probabilmente deve rientrare tra le caratteristiche del manager la capacità, a fronte di una perenne insoddisfazione, di creare le condizioni affinché le persone siano in grado di prendere atto di ciò che di buono hanno fatto in funzione dei loro contributi e contemporaneamente possano prendere consapevolezza di un’oggettiva ed eventuale area di miglioramento che dovrà essere continuamente affrontata.
Scegliere strade fuori standard è spesso la strada più difficile, ma se l’obiettivo è quello di costruire organizzazioni realmente sostenibili forse è l’unica percorribile.
Il dopo Thyssen
La responsabilità sociale ha un costo? Certo, meglio interpretarlo come un necessario investimento. Non sono in grado di entrare nel merito giuridico della sentenza Thyssen, tuttavia ciò che è accaduto nei giorni scorsi, segna sicuramente un’evoluzione del modello di sicurezza e più in generale di responsabilità sociale d’impresa. Tante voci, alcune fuori luogo, alcune di spavento per il futuro, alcune di entusiasmo, certo è che ancora una volta per far cambiare le cose occorre reagire ad una situazione, in questo caso realmente drammatica che è costata la vita a molte persone che lavorando hanno perso la vita. La responsabilità dell’azienda è evidente, le reazioni di enti e organi espressione del settore appaio quantomeno incoerenti e da un lato preoccupanti semplicemente per la mancata opportunità di assumere un atteggiamento più responsabile in senso ampio del termine, cogliendo dalla sentenza la possibilità di dare segnali chiari a coloro che ancora oggi ritengono la sicurezza come un costo a volte troppo elevato.
Ultimo aspetto della vicenda riguarda le non reazioni rispetto ad una posizione di vantaggio competitivo assunta slealmente e a discapito dei lavoratori. Il fatto che Thyssen non abbia investito a sufficienza nel settore della sicurezza ha portato all’azienda stessa un vero vantaggio competitivo rispetto ai suoi diretti concorrenti, tale elemento dovrebbe essere oggetto di denuncia, mentre difficilmente troveremo nelle cronache simili ragionamenti.
I motivi potrebbero essere differenti, da un lato probabilmente perché si tratta di un sistema come più volte accennato poco turbolento e dominato da posizione dominanti (logica dell’oligopolio), dall’altro il fatto che per denunciare un concorrente su un tema così delicato coma la sicurezza occorre essere realmente in regola, non è detto che i concorrenti lo siano, anzi leggendo le critiche alla sentenza parrebbe emergere il contrario.
Se da un lato le aziende sono molto attente a far emergere azioni di illecito commerciale messe in atto dai loro competitors, sono molto distratte dal denunciare elementi di vantaggio competitivo che non hanno ricadute dirette sul business. Se denunciare è difficile, utilizzare la sicurezza come vantaggio competitivo lo ancora di più, spesso perché manca una cultura aziendale orientata in questa direzione, sottovalutando la percezione del cliente finale rispetto al tema sicurezza del lavoro o tutela del lavoro.
La logica business-centrica ancora una volta domina una logica stakeholders-centrica. Sono infatti questi gli aspetti che maggiormente rendono innocue le politiche di responsabilità sociale all’interno delle aziende.
Il dopo Thyssen può rappresentare una vera opportunità nel pianificare non solo azioni maggiormente responsabili, ma avviando un ragionamento strategico in grado di includere anche azioni di CSR. E’ sempre più evidente che il vantaggio competitivo sia garantito anche da quanto responsabilmente un’organizzazione è in grado di sviluppare il proprio business (certo, in un’ottica di medio e lungo periodo).
Ho studiato economia e me ne pento…
Il libro di Florence Noiville “ Ho studiato economia e me pento”, sintetizza in meno di 90 pagine un preciso scenario del mondo aziendale e manageriale, partendo da una propria esperienza personale.
Noiville ha frequentato 25 anni fa l’HEC, Ecole des haute etudies commerciales, ovvero la più importante Business School francese, da cui sono usciti ed escono potenziali manager di successo. L’autrice si interroga sul modello su cui si sviluppano le Business School, interrogandosi sul ruolo e sulla responsabile di queste istituzioni, che dovrebbero aver il ruolo di formare i nuovi manager in un’ottica di complessità piuttosto che in’ottica di certezze e di sequenze causa effetti.
L’elemento che più interessa da un punto di vista manageriale è rappresentato dalla chiarezza con cui l’autrice “smonta” le certezze che vengono costruite durante il percorso di studi. Leggi il seguito di questo post »