La deresponsabilizzazione dell’art.18

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art 182

In questi giorni di nuova discussione sull’art.18 dello statuto dei lavori, emergono differenti punti di vista.

L’attualità dell’argomento con estensione o validità solo per i neo assunti, fa nascere differenti reazioni, in primis quelle di chi non crede che l’abolizione dello stesso possa incrementare l’occupazione.

Sul tema ho cercato di esplorare differenti punti di vista e vorrei condividere con voi il mio.

L’assunto di base di chi non crede nell’incremento dell’occupazione si basa sul fatto che oggettivamente non ci sia lavoro e quindi questa azione non porti che ad uno svantaggio per tutti indebolendo i diritti dei lavoratori.  Io penso che questo assunto sia solo in parte vero. E’ evidente che rispetto ad altri momenti storici l’offerta di lavoro sia limitata, tuttavia è limitata altrettanto la domanda di lavoro qualificata e quindi in grado di essere utile alle aziende che ancora oggi per scelta o per necessità stanno cercando nuovi lavoratori.

Cosa c’entra tutto questo con l’articolo 18? C’entra eccome. Fino a oggi (ieri) il lavoro da molti veniva considerato come un’azione reattiva, ovvero rispondere a esigenze espresse da un datore di lavoro, o da un capo, delegando ad un terzo l’interesse della crescita professionale, dell’autonomia operativa e della responsabilità delle scelte, tutto questo sancito appunto anche dall’art.18 (nella logica della stabilità lavorativa).

Questa condizione ha portato il management di molte realtà a costruire la propria organizzazione basata sull’utilizzo di competenze e professionalità in funzione di particolari richieste (quasi sempre provenienti dal mercato), in un’ottica quasi sempre azienda centrica, ovvero è l’azienda che forma il lavoratore, è l’azienda che fa crescere il lavoratore, è l’azienda che premia o disincentiva il lavoratore, è l’azienda che decide il futuro del lavoratore.

In quest’ottica tutto lo sviluppo organizzativo e manageriale ha seguito un percorso definito: non potendo fare a meno delle persone ha cercato di ottenere il massimo dalle stesse, ovvero ha riportato nella pratica di sviluppo delle risorse umane il concetto di massimizzazione del profitto, traducendolo nel concetto di massimizzazione delle capacità (termine un pò generico ma utile per capirsi); in quest’ottica troviamo realtà che hanno saputo far crescere le persone e realtà che hanno sfruttato le persone senza riuscire a generare un valore sostenibile nel tempo.

In entrambi i casi non era preoccupazione di quel tipo di management creare dei lavoratori in grado di avere un mercato all’interno del mercato del lavoro, ovvero in grado di poter approcciare altre realtà anche in funzione di prospettive o opportunità emergenti.

Dall’altro lato il lavoratore grazie anche all’art.18 ha vissuto un periodo di deresponsabilizzazione, ovvero raramente si è preoccupato di costruirsi una posizione spendibile sul mercato del lavoro; l’interpretazione del lavoro era quella di eseguire un compito deciso da qualcun altro (dall’organizzazione). Certamente in questa visione un po’ estremizzata rientrano come per il management delle eccezioni, ovvero lavoratori che negli anni sono riusciti eccome ad avere una posizione nel mercato del lavoro, sia per meriti loro, che per il settore in cui erano inseriti, sia per il tipo di azienda frequentata.

La copertura a vita salvo imprevisti ha innescato lato management e lato lavoratore questa situazione le cui ricadute più pesanti sono per i lavoratori che non si sono mai preoccupati di costruirsi un mercato di riferimento in cui scambiare professionalità o emergere rispetto ad altri. La conseguenza di questa situazione è la totale immobilità delle persone che oggi non sono ancora in grado di ricevere una pensione, che hanno una certa età e che non sono più in grado di soddisfare le esigenze dell’organizzazione per la quale lavorano che, dal canto suo, non è stata in grado negli anni di fornire gli strumenti per rimetterli in linea con questo richiesto dal contesto in cui operano (la tentazione di capire di chi è la colpa è alta, ma cerchiamo di focalizzarci sul problema).

Con il prolungarsi della situazione critica dal punto di vista economico, questa combinazione di fattori ha generato la chiusura delle organizzazioni meno performanti e la fuori uscita dalle aziende di persone che non riescono più a collocarsi (non solo perché non ci sia domanda ma anche perché non hanno una professionalità adeguata), o in altri casi la riduzione di nuovi ingressi lavoratori di persone più giovani.

L’introdurre l’abolizione dell’art.18 per i neo assunti può quindi essere vista come l’avvio nel medio periodo di un nuovo modo di interpretare il lavoro da parte del lavoratore e da parte del management; non è quindi risolutivo in senso assoluto ma vuole essere un inizio di cambiamento verso un mondo in cui realmente il lavoratore può e deve essere responsabile del proprio futuro, in cui il management (che è formato da lavoratori) non può più decidere da solo cosa, come e quando lavorare ma sempre più spesso deve confrontarsi per generare una cultura condivisa con tutte le persone che in quel momento fanno parte dell’organizzazione.

La fuoriuscita da un’organizzazione spaventa chiunque, forse un pò meno chi ha i requisiti per riuscire ad essere interessante per altri, non solo quando si è giovani, ma anche quando l’età avanza.

La responsabilità della scelta dipende dagli individui, occorre a tutti ed in primo luogo al management sostenibile prendere e far prendere consapevolezza rispetto a questa assunzione di responsabilità.

 

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