Il lavoro al bivio e un diverso ruolo delle imprese.
Siamo giunti in un momento in cui potrebbe essere utile ripensare al significato di lavoro all’interno di un’azienda. Una riflessione per certi versi già avviata da alcuni anni senza avere al momento trovato entusiasmo o innovazione.
La necessità di ripensare al concetto di lavoro è accelerato dalla situazione di contesto che vede la disoccupazione giovanile a livelli mai visti, e allo stesso tempo vede aziende in difficoltà a gestire i nuovi ingressi.
Parlo di bivio riferendomi al concetto di lavoro inteso come orario, tempo retribuito. E’ ancora utile avere questa visione del lavoro, ovvero del lavoro inteso come salario orario? Attenzione non sto dicendo di non aver più un orario o più in generale regole, mi sto riferendo al fatto che oggi chi intende il lavoro come tempo occupato all’interno di un’organizzazione si pone in una posizione troppo debole, diventando poco interessante per le imprese che tutti i giorni si trovano a che fare con situazioni che necessitano sempre più spesso di professionalità elevate, di contributi collettivi, e di soluzioni emergenti.
Questa particolare riflessione riguarda nello specifico chi ancora deve entrare nel mondo del lavoro o chi c’è entrato da poco. Se la visione di chi ha poca esperienza (data l’età) e quindi poche competenze da condividere è comunque quella di entrare in un contesto in cui possa essere retribuito per il tempo che dedica all’azienda, si sta ponendo in una condizione di assoluta precarietà non data dalla forma contrattuale ma dalla sua forma mente.
Problema differente per chi ha un’esperienza consolidata ed un abitudine a concepire il lavoro in questo modo, legato cioè al salario orario. Questa logica in moltissimi casi ha rallentato il processo di sviluppo delle competenze e delle attitudini necessarie per essere considerati realmente un asset strategico; a questo ha contribuito spesso inconsapevolmente un sistema di finta tutela che invece di accrescere la professionalità del lavoratore ha creato dei contesti di protezione fine a se stessi definendo e consolidando una definizione di lavoro inteso come tempo occupato, e non come il valore del contributo che il lavoratore può e deve portare all’interno dell’organizzazione.
Non voglio soffermarmi sulla precarietà del lavoro in termini di contratti, ma sul nuovo concetto di lavoro, sulla cultura del lavoro, sull’interpretazione che una persona ha di quello che fa, che può fare e potrebbe fare. Gli esempi di Virgin o IBM legati all’eliminazione dell’orario fisso di lavoro vanno in questa direzione; sono fantascienza? Direi di noi, interpretano solamente una nuova strada del lavoro, basato sul saper fare, saper essere ma anche il saper contribuire, ricevendo in cambio non solo un salario, ma la considerazione, la reputazione e la responsabilità di aver contribuito in maniera unica al successo dell’attività per cui si è stati coinvolti e retribuiti.
Quando sento ragazzi under 30 parlare tra loro di forme contrattuali al pari dei massimi esperti di diritto del lavoro, provo un profondo senso di disagio per il fatto di non aver colto il reale senso del contributo che possono dare al loro futuro. Il loro futuro non passa attraverso un abbattimento della precarietà contrattuale ma attraverso una diversa interpretazione di ciò che possono fare. In tutto ciò le aziende possono avere un ruolo di responsabilità centrale; in primo luogo costruendo culture aziendali ed identità che pongano al centro la responsabilità individuale e collettiva, costruendo sistemi di crescita delle professionalità attraverso reali sistemi di learning organisation, definendo politiche retributive che premino il contributo collettivo all’innovazione, sostituendo qualsiasi logica di controllo con quelle della partecipazione allargata; in altri termini adottando politiche di sostenibilità manageriale.
novembre 13, 2014 alle 11:06 PM
Le caratteristiche da lei evidenziate mi trovano molto d’accordo. Mi chiedo però quale sia la componente più “in difetto”: se i giovani, ancora agganciati ad una idea di lavoro che non c’è più oppure le imprese che dovrebbero provvedere, come lei sottolinea in chiusura del post, a creare una cultura aziendale orientata alla responsabilità individuale ma che mi sembrano ancora piuttosto lontane da questa dimensione. Grazie per lo spunto.
Andrea