Cambio lavoro?
Inizia un nuovo anno, ed in molti hanno come obiettivo quello di cambiare lavoro. In questi giorni di pausa natalizia mi è capitato di incontrare parecchie persone che si sono lamentate non solo per la situazione di contesto sempre più critica per certi versi, ma per la qualità del lavoro che stanno vivendo.
I principali motivi di insoddisfazione, non sono come qualcuno potrebbe credere correlati al livello retributivo, ma a ben più complesse situazione, prima tra tutte, soprattutto tra i giovani, la mancanza corrispondenza tra il lavoro desiderato (spesso coincidente con gli studi effettuati) ed il lavoro concretamente svolto. A seguire tra le cause, la mancanza di soddisfazione rispetto a ciò che si svolge e per ultimo la difficoltà di intravedere sbocchi professionali adeguati.
Ho scelto le prime tre motivazioni che ho percepito come più le più comuni non solo tra le mie relazioni.
Se queste sono le condizioni perché allora non cambiare lavoro?
Domanda facile e allo stesso tempo molto complicata. Non si cambia perché:
– non ci sono posti disponibili
– si ha paura di cambiare
– è difficile e faticoso
– non si riescono a valorizzare le competenze possedute
– esiste una difficoltà di fondo nell’individuare il lavoro ideale in grado di soddisfare molte delle aspettative intrinseche
A queste motivazioni possiamo aggiungerne un’altra che può essere vista come trasversale alle precedenti, ed è identificabile nella concezione culturale del lavoro, ovvero interpretare il lavoro come elemento fornito e non come elemento creato, acquisito; interpretare il lavoro come punto di arrivo e non come punto di partenza. Non mi riferisco ovviamente al posto fisso o alla certezza del posto di lavoro ma all’interpretazione appunto del concetto di lavoro.
Quanti considerano il lavoro come una professione e quanti interpretano il lavoro come una retribuzione?
Ci sono differenze importanti e non solo di carattere teorico tra un’interpretazione ed un’altra. Quando parlo di professione, intendo infatti la capacità di migliorarsi continuamente, di non fermarsi ad aspettare, di continuare ad investire su se stessi e sulle proprie scelte.
Quando faccio affermazioni del genere, c’è sempre chi mi risponde più o meno in questo modo: “prova tu ad interpretare il lavoro come una professione quando lavori per un supermercato e tutto il giorno carichi merce sugli scaffali e guadagli 900€ al mese…” A questa obiezione solitamente rispondo chiedendo se quel lavoro, che rispetto e considero a tutti gli effetti come un buon lavoro, può essere visto non solo come un impegno che a fine mese ti consente di guadagnare 900€, e se sono state messe in campo azioni utili per uscire da questa situazione (formazione, colloqui, relazioni, affiancamenti, esperienze…).
Molti amici precari, vivono la crisi, soprattutto della PA come un elemento drammatico non tanto per il contesto incerto, quanto perché viene meno il loro posto di lavoro, spesso si tratta di persone anche laureate che per 1,2,3 anni hanno lavorato per la PA nella speranza di un posto di lavoro fisso. A loro domando, sempre cosa hanno fatto, oltre al loro lavoro, per costruirsi un futuro diverso da quello che li sta coinvolgendo; facendoli ragionare, per quanto possibile, che la speranza di un posto di lavoro, sopratutto nella PA non è più compatibile con l’attuale contesto socio-economico. Non è la speranza che alimenta il moltiplicarsi delle opportunità, anzi, spesso la speranza, diventa un elemento di allontanamento dal confronto con il mercato del lavoro.
Lo stesso ragionamento ovviamente vale per le aziende, che in questi periodi dovrebbero avere una responsabilità maggiore, quella di evitare di abusare della loro posizione dominante nei confronti dei loro collaboratori. Su questo tema abbiamo già discusso, vorrei solamente sottolineare come l’azione manageriale in periodi di crisi dovrebbe spostarsi nel rendere maggiormente consapevoli i propri collaboratori delle scelte che l’azienda sta facendo per riuscire a garantire un posto di lavoro, mettendo sul tavolo del confronto e del dialogo, la condivisione di scelte e di responsabilità.
Anche l’azienda gioca o dovrebbe giocare un ruolo centrale nella costruzione di una professionalità. Tornando all’esempio dell’operatore di supermercato, appare evidente che il supermercato avrà sempre bisogno di persone che ripongano correttamente la merce sugli scaffali, in questo caso aumentare la professionale si traduce nel creare le migliori condizioni affinché chi ha capacità anche diverse possa occuparsi anche di altro ( anche a parità di retribuzione e di livello). Non è la mansione che determina la professionalità, ma è la capacità di sapere interpretare il proprio ruolo alla luce delle proprie competenze e capacità all’interno di un contesto organizzativo.
Reinventarsi il lavoro ogni giorno, ripartendo ogni anno da zero, costruendo, ricostruendo e lavorando in un progetto che ogni volta rappresenta un punto di partenza e non di arrivo. E’ faticoso, è precario, ma può generare molte soddisfazioni.